Parlare di Dio e dei poveri con Gustavo Gutiérrez, il padre della Teologia della liberazione

(a.m.). Appena conosciuta la notizia della morte di padre Gustavo Gutiérrez (in una foto degli anni ’80 pubblicata da Vatican News) mi sono ricordato di una lunga intervista che gli facemmo. Andai con un altro sacerdote, don Francesco Ricci, a casa sua, nel Rimac, un povero quartiere di Lima dove era viceparroco da cinque anni. Piccolo di statura, visibilmente segnato dalla osteomielite che l’aveva attaccato a 12 anni inchiodandolo su una sedia a rotelle fino ai 18, Gutiérrez aveva allora 58 anni, 27 di sacerdozio ed era il teologo latino-americano più conosciuto.

Erano gli inizi del 1986, ed è indispensabile collocare il dialogo che avemmo con lui, sincero e profondo, nelle coordinate di tempo in cui è avvenuto. Un paio di anni prima, infatti, la rivista che dirigevo, 30Giorni, aveva pubblicato uno studio riservato del cardinal Ratzinger sulla Teologia della liberazione. Il dossier era di natura accademica, sulla teologia politica di Moltmann, ma ebbe una risonanza mondiale e fu interpretato come una condanna della teologia della liberazione e dei suoi principali esponenti. Gutiérrez, con Boff, Sobrino e altri entrò nel centro dell’attenzione vaticana. Due anni dopo la Santa Sede fece un primo documento su quella corrente teologica, di sostanziale condanna di talune linee della stessa, riservandosi per il 1986 un intervento di natura più meditata e costruttiva.

Tutto questo Gutierrez lo sapeva e accettò l’intervista. Disse di non averne date dai giorni del viaggio di Giovanni Paolo II nel suo paese, nel febbraio 1985, e di non avere intenzione di rilasciarne per un pezzo. Perché, allora, accettò di dare una intervista, e certo non facile, proprio alla rivista che in quegli anni aveva mosso critiche serrate alla Teologia della liberazione e che lo stesso Gutiérrez aveva a sua volta criticato? «Perché la mancanza di dialogo» — rispose quando glielo chiedemmo — «favorisce l’inimicizia e l’inimicizia distorce le posizioni». Una risposta che non solo faceva onore alla sua maturità umana e di pensatore, ma che ancora oggi rappresenta una indicazione di metodo di grande spessore culturale.

L’intervista di allora è nelle pagine che seguono.

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DISCUTIAMONE PADRE GUTIERREZ…

Intervista-dibattito con il fondatore della Teologia della liberazione. Le origini: interessi e inquietudini di un giovane prete negli anni 60. Il marxismo, un nodo non risolto. Cosa c’entra la Teologia della – liberazione con la “Iglesia popular” del Nicaragua. C’è “restaurazione” nella Chiesa di Giovanni Paolo II? Socialismo reale: «un punto su cui dovremo lavorare». Si può fare teologia senza una antropologia? «I miei rapporti con Roma». Aspettando il secondo documento… 

Lei è considerato il padre della Teologia della liberazione. Si sente tale? È una paternità che ripudia o che riconosce? 

GUSTAVO GUTIÉRREZ: La prima frase del libro “Teología de la liberación” dice: “Questo lavoro tenta una riflessione, a partire dal Vangelo e dalle esperienze di uomini e donne impegnati con il processo di liberazione, in questo subcontinente di oppressione e spoliazione che è l’America Latina”. Se una paternità c’è è piuttosto di questi cristiani. È però vero che ad un livello più tecnico una paternità corrisponde a chi, nella comunità cristiana, ha la funzione, il carisma teologico di articolare e formulare tutto ciò. In questo senso, cronologicamente la prima persona che ha chiamato questa riflessione “Teologia della liberazione” sono io, ma il contenuto viene da molto più lontano.

Con tutto il parlare che si fa di Teologia della liberazione da due anni a questa parte, non ha mai avuto la reazione che ebbe Marx quando, dopo aver letto i testi di alcuni marxisti esclamò: “Io non sono marxista”? Non le è mai venuta la voglia di esclamare: “Io non sono un teologo della liberazione!”?

GUTIÉRREZ: A volte. Ma cominciamo con il fare salve le proporzioni. Francamente credo che la Teologia della liberazione, per quanto possa essere interessante, non ha affatto le dimensioni che hanno avuto altre correnti di pensiero nella storia dell’umanità. In più occasioni, oralmente e per iscritto — più oralmente perché scrivo poco — ho detto e ripetuto che con tutta una serie di interpretazioni e di maniere di intendere la Teologia della liberazione sono in completo disaccordo. Ci sono modi di esprimersi, di interpretare l’espressione Teologia della liberazione con cui non sono affatto d’accordo. È inevitabile. Del resto, questa espressione non è una mia proprietà privata ed esclusiva e chiunque può adoperarla.

Anche a Tubinga, mi pare lo scorso settembre, quando le conferirono la laurea honoris causa, lei accennò alle sue differenze con altri teologi della liberazione. Da chi si sente più distante e a chi più vicino?

GUTIÉRREZ: Preferisco parlare di quelli a cui mi sento più vicino. Ed anche in questo caso non vuol dire che non ci siano accenti diversi. Del resto, non conosco, nella Chiesa cattolica, due teologi che siano al cento per cento d’accordo. È normale che ci siano differenze sul piano teologico e quindi mi sembra giusto che si parli di maggiore o minore vicinanza. A chi mi sento più vicino? I nomi lei li conosce: Jon Sobrino, Leonardo Boff, Rolando Muñoz, Clodovis Boff, Libanio Christo, Juan Luis Segundo…

Parliamo delle origini della sua riflessione e perciò della Teologia della liberazione. Vorrei che rievocasse la situazione ecclesiale della fine degli anni ’60. La crisi delle politiche del “desarrollismo”, il rifiuto sempre più marcato di una idea di sviluppo come semplice aiuto al sottosviluppo, l’impiantazione a catena dei regimi militari in buona parte del continente, il perfezionarsi delle dottrine della sicurezza nazionale… Come ha vissuto questi anni? Come li hanno vissuti i giovani cattolici di cui lei era assistente?

GUTIÉRREZ: Mi pare che negli anni ’60, dal punto di vista storico, si produca in America Latina un processo interessante: i poveri del continente cominciano a prendere maggiore coscienza della loro situazione. La povertà non è certo cosa recente in America Latina. Quello che di nuovo accadde in quegli anni fu l’emergere di una coscienza più chiara della inaccettabilità della povertà e delle sue cause. Mi pare che questa nuova coscienza storica sia stata ben raccolta a Medellín.

Sempre più numerosi i cristiani parteciparono al processo di trasformazione sociale che piano piano si sviluppava e si estendeva. È questo il terreno su cui sorge la Teologia della liberazione. È il decennio in cui in tutto il continente si producono interessanti fermenti, a livello sociale, politico ed anche ecclesiale: comunità cristiane e movimenti apostolici sia studenteschi che operai…

Tutto questo contribuisce a maturare la prospettiva teologica della Teologia della liberazione. Dirò di più. È anche evidente che senza il Vaticano II e ciò che esso ha significato, non avremmo avuto Teologia della liberazione. Nella pur sommaria descrizione del contesto entro cui è nata la Teologia della liberazione non posso non ricordare l’importanza che ebbe l’enciclica “Populorum progressio”.

Questa enciclica, e più particolarmente il numero 21 dove si parla di “sviluppo integrale”, fu per me il punto di partenza per parlare di “liberazione totale”, che è l’espressione esatta che utilizzo in “Teología de la liberación”.

“Populorum progressio” ebbe in America Latina una influenza molto grande, più ancora — volendo fare una comparazione — di “Gaudium et Spes”. È questa nuova coscienza che si stava formando in America Latina che ha rappresentato per i cristiani di allora una imponente sfida alla loro identità, una grande provocazione a cercare ed a realizzare forme nuove di presenza della Chiesa con la sua visibilità.

“… Forme nuove di presenza della Chiesa con la sua visibilità”. Su questo punto c’è un suo intervento, pronunciato al Celam nel novembre del 1972, nel corso di un incontro sul laicato in America Latina, di cui le cito due brevi passaggi. Il primo: “Se questa comunità che annuncia la salvezza non si vede, non c’è il soggetto dell’annuncio. La visibilità è la base della istituzionalità della Chiesa”. Il secondo, dove sembra prendersela con quei cristiani che “davanti alle difficoltà che presenta la Chiesa istituzionale perdono di vista la ragione teologica della visibilità e gettano l’acqua con il bambino: così, volendo liquidare strutture caduche finiscono con il liquidare la visibilità”. Se questa era 14 anni fa la sua preoccupazione, non le sembra che sia cresciuto nella Chiesa un certo “anti-istituzionalismo”?

GUTIÉRREZ: Personalmente continuo ad essere fedele a queste espressioni e le ripeterei parola per parola. Quanto all’America Latina — (il discorso sarebbe diverso per l’Europa) — non posso affermare che non ci sia un anti-istituzionalismo, ma sono del parere che non sia cresciuto. E ciò si deve in gran parte alle posizioni che la Chiesa ha assunto nel continente, per esempio a Medellín. Medellín ha dato impulso ad una nuova presenza della Chiesa-istituzione nel mondo dei poveri. Mi pare di poter dire che la presenza della Chiesa nella sua visibilità sia oggi molto maggiore che in passato. Ci possono essere situazioni locali che contraddicono questa affermazione o anche settori che subiscono influenze ecclesiali europee, ma globalmente parlando penso che la Chiesa latino-americana abbia guadagnato in visibilità e la presenza della Chiesa in situazioni come il Brasile o il Cile lo dimostra.

Quando scrisse “Teología de la liberación”, nel 1971, se non sbaglio, lei era assistente del movimento universitario cattolico?

GUTIÉRREZ: Sì, ero e sono ancora assistente degli universitari cattolici. Sono 26 anni che li seguo e credo di essere il più vecchio assistente di movimenti universitari dell’America Latina. Mi preme precisare che essere universitario oggi in Perù non significa in alcun modo appartenere ad una élite sociale. Chiunque può andare in università e verificarlo. Negli anni in cui scrissi “Teología de la liberación” ero assistente e nello stesso tempo lavoravo con comunità cristiane di Lima e di altre zone del Paese, con sacerdoti e religiose. Questa ha rappresentato sempre una parte importante del mio lavoro.

Interessi e inquietudini di un giovane prete

Lei ha descritto, a grosse linee, la situazione della fine degli anni ’60. In quel contesto è vero che lei ha interpretato una inquietudine, ma è stata una interpretazione. Personalmente come ha vissuto quegli anni? Cosa ha determinato quell’interpretazione? Qual era, allora, la sua personale posizione davanti a quello che le si muoveva attorno?

GUTIÉRREZ: Di interesse e, non lo nego, di inquietudine. Di interesse perché mi accorgevo che il popolo povero dell’America Latina cominciava una tappa diversa, stava acquisendo maggior coscienza e viveva una più forte aspirazione ad essere soggetto della propria storia. Di inquietudine perché la risposta ai nuovi problemi poteva anche non essere, dal punto di vista della fede, quella più conveniente e necessaria a far sì che i cristiani fossero presenti in questo processo senza perdere la loro identità. Questa era l’inquietudine perché, se i nuovi problemi vengono affrontati con soluzioni non adeguate al momento, anche il soggetto che li affronta ne paga le conseguenze.

Avevo molta paura di una certa dicotomia, quasi schizofrenia, di alcuni cristiani che, mentre mantenevano una idea cristiana più o meno privata, sviluppavano una azione sociale e politica desumendola da un altro mondo di valori. Questo fenomeno cominciavo a osservarlo e mi preoccupava sempre più. Io credo che la fede debba avere una funzione critica davanti a tutte le realizzazioni storiche. La fede non ha soluzioni concrete, economiche o sociali da dare. Tuttavia, non può essere ridotta ad una idea cristiana privata che si mette a fianco di una azione ispirata da altri criteri. Questa dell’ispirazione e dell’identità cristiana era una prospettiva che mi interessava molto. È una delle ragioni per cui ho scritto “Teología de la liberación”. Mi interessava sottolineare il significato della fede in un processo di trasformazione sociale.

In una conferenza che lei ha tenuto a Madrid nel 1984 ha pronunciato una frase per certi versi strana. Lei ha detto: “Il mio amore per la Chiesa è di prima della guerra”. L’impostazione teorica di “Teología de la liberación” lascia capire che c’è questo tipo di inquietudine nel suo autore. Quello che però non è altrettanto chiaro è in che modo la proposta della Teologia della Liberazione è determinata da questa inquietudine. In “Teología de la liberación”, che può essere considerato il suo testo classico, prevale una analisi oggettiva, non si coglie una identità cristiana in azione. La preoccupazione di far operare l’identità cristiana resta intenzionale, non diventa un metodo.

GUTIÉRREZ: La frase è desunta da un canto di Joan Manuel Serrat, là dove parla dell’amore per la sua donna e per far capire che è un amore irremovibile dice, appunto, che “es de antes de la guerra”. Si tratta di una espressione comune in Spagna e questo è il senso in cui va intesa. Lei dice che questo nel libro non risulta. Non posso discuterlo, ha tutto il diritto di intendere quello che crede. L’autore non è mai padrone della sua opera. In “Teología de la liberación” c’è però un lungo paragrafo di dieci pagine su “Espiritualidad de la liberación”. Mi permetta di dirle che in libri di questo genere non è frequente. Io non solo ho trattato i diversi temi con categorie teologiche, ma ero intenzionato a sviluppare questa prospettiva spirituale di lì a poco. Tuttavia, ho potuto farlo solo quando scrissi “Beber en su propio pozo”. C’è un altro piccolo capitolo in “Teología de la liberación” dove riassumo, forse in forma troppo pedagogica, le domande che suscita la realtà che ho cercato poco fa di descrivere. Mi pare che in quelle pagine si possano cogliere alcune mie preoccupazioni: per la perdita del senso della preghiera, per un certo misconoscimento della funzione della Chiesa… Queste sono cose che mi preoccupavano. Credo di aver vissuto molto intensamente gli anni ’60. Erano i miei primi anni di sacerdozio. Non ho difficoltà ad affermare che “Teología de la liberación” fu il tentativo di rispondere, con un punto di vista di fede, alle nuove sfide per aiutare i cristiani — nella misura in cui una riflessione può farlo — a guadagnare in identità cristiana ed ecclesiale. Non pretendo convincere nessuno di esserci riuscito, ma questa è stata chiaramente la mia preoccupazione fondamentale.

È la prima volta che dico quello che sto per dire e non dovrei essere io a farlo, ma la questione è molto importante. Ho sufficienti testimonianze per poter dire che in questi anni in America Latina persone che si sono poste nella prospettiva della Teologia della liberazione hanno guadagnato in identità cristiana. Conosco persone che sentivano la loro fede come inadeguata rispetto alle nuove problematiche e questa riflessione teologica le ha aiutate a capire che invece è adeguata. Conosco altre persone che hanno riacquistato la fede o che l’hanno riscoperta con un nuovo slancio. Nella mia esperienza pastorale e sacerdotale queste testimonianze non mi sono mancate.

In fondo la Teologia della liberazione avrebbe potuto sorgere da qualsiasi altra parte; forse per l’età è toccato a me articolarla con questo nome, ma se così non fosse stato sarebbe egualmente apparsa altrove, magari qualche anno dopo…

È anche vero che negli anni ’60 molti cristiani che militavano in associazioni cattoliche sono diventati marxisti. Perché?

GUTIÉRREZ: Dipende da cosa vuol dire. Chi fa riferimento al tale o al talaltro punto dell’analisi marxista non per questo diventa marxista. È vero che nella complessa situazione dell’America Latina degli anni ’60 e tra persone che si impegnavano, magari generosamente, in un processo di trasformazione sociale ci furono dei casi di abbandono della fede. Sono situazioni che avevo presenti quando, poco fa, esprimevo le mie preoccupazioni di quegli anni. Le cause di questi abbandoni erano diverse ed una, sicuramente, era un inadeguato annuncio della fede. Medellín ha risposto a fondo a questo disorientamento e credo che anche la Teologia della liberazione abbia contribuito a superarlo.

Lei ha conosciuto marxisti che sono diventati cristiani?

GUTIÉRREZ: Ho potuto constatare la corrente di simpatia che Medellín, ma anche la testimonianza di monsignor Romero e tanti altri, ha suscitato in molti ambienti tradizionalmente lontani dalla fede cristiana, legati o meno al marxismo.

Perché la militanza politica, o comunque l’appoggio elettorale delle persone che si riconoscono nella Teologia della liberazione, va a partiti o a movimenti di sinistra? Nel caso del Perù a “Izquierda Unida”?

GUTIÉRREZ: Occorrerebbe uno studio serio per verificare fino a che punto è vero quello che lei afferma. Le ragioni di una scelta politica sono sempre molte. Per esempio, ci sarebbe da chiedersi in quali posizioni politiche si sentono meglio rappresentati i settori popolari.

Per ragioni storiche può darsi che questo non sia un buon criterio in altre latitudini e in altri sì, ma lo è nel Perù.

Lei si richiama spesso alla Conferenza di Medellín del 1968. Ma da Medellín ad oggi ci sono stati: l’elezione di Giovanni Paolo II, la Conferenza di Puebla, la recente riflessione sui 20 anni del Concilio… In che modo questi avvenimenti l’hanno toccata personalmente e hanno influito sulla sua stessa riflessione teologica?

GUTIÉRREZ: La Teologia della liberazione come tale si è formata prima di Medellín, ma Medellín le ha dato un impulso immenso…

Ma non stiamo parlando della Teologia della liberazione come un “prodotto teologico”, quanto piuttosto come una risposta della identità cristiana alla provocazione latino-americana. Da questo punto di vista l’identità cristiana, dopo Medellín, è stata alimentata dall’attuale pontificato, da Puebla, dalla stessa discussione sulla Teologia della liberazione e sull’azione della Chiesa in America Latina… E la Teologia della liberazione?

GUTIÉRREZ: È per questi avvenimenti e per altri ancora che sostengo che la Chiesa in America Latina ha vissuto momenti di grande ricchezza e vitalità.

Nell’ambito del Vaticano II la Conferenza di Medellin (si tiene appena tre anni dopo il Concilio e dal clima del Concilio è completamente pervasa) dà impulso ad una molteplicità di esperienze pastorali di estremo interesse. Dieci anni dopo, Puebla si ricollega e rafforza la linea fondamentale emersa a Medellin e nello stesso tempo ne segnala i possibili e in certi casi reali errori, o mancanze o limiti. Puebla spinge in avanti la prospettiva di Chiesa dei poveri di Medellin. La spinge in avanti rispetto a Medellin e rispetto allo stesso Concilio. Nei testi conciliari, per ragioni perfettamente spiegabili, il tema della Chiesa dei poveri non fu tanto presente. L’espressione è di Giovanni XXIII e la pronunciò qualche mese prima dell’apertura del Concilio. A volte cerco di immaginare come sarebbe stato il futuro se non un tema, ma il tema del Vaticano II fosse stato la povertà… sicuramente la situazione dell’America Latina di oggi sarebbe molto diversa da come è. Medellin raccoglie, per così dire, la posta del Vaticano II in ordine alla Chiesa dei poveri. Non solo, ma l’espressione “Iglesia de los pobres”, che dopo Giovanni XXIII mi pare non sia stata assunta da nessun testo del magistero universale, è stata fatta propria, recentemente, da Giovanni Paolo II nella “Laborem exercens” ed in molti suoi discorsi. Al n. 8 della “Laborem exercens”, il Papa precisa molto bene questa idea di Chiesa, al punto che credo di poter dire che il suo pontificato ha ulteriormente rafforzato questa prospettiva.

Fino alla recente discussione sinodale sui 20 anni dal Concilio, che io considero francamente decisiva per l’America Latina. Non so se qualcuno in America Latina abbia pensato o possa pensare che si sia trattato di una discussione fondamentalmente europea. Io comunque non sarei d’accordo con questo giudizio. Il Sinodo ha lasciato scritto a chiare lettere che negli ultimi anni la Chiesa ha preso maggiore coscienza della necessità di una opzione preferenziale (non esclusiva) per i poveri. Non è certo una affermazione nuova nella Chiesa, ma bisogna capire che punti vecchi, in un momento dato appaiono nuovi. E può darsi che a questa maggiore presa di coscienza l’insistenza di Medellin e della Teologia della liberazione abbia potuto contribuire.

Si è detto e scritto che il recente Sinodo sul Concilio ha imposto una interpretazione restrittiva del Vaticano II, “restaurativa” per usare un termine di largo uso. Lei come giudica le conclusioni dell’assemblea sinodale?

GUTIÉRREZ: Non leggo questa restrizione nel testo finale del Sinodo. Il tono delle conclusioni è lo stesso della prima relazione del cardinale Danneels. Le conclusioni affermano il valore e il significato del Concilio nella vita della Chiesa; ricordano che i segni dei tempi non sono esattamente gli stessi dell’epoca conciliare e che è necessario essere attenti ad essi; sottolineano che la situazione non è la stessa nei paesi ricchi dell’Occidente e in altre regioni del mondo, il che evita generalizzazioni facili a partire dall’Europa circa gli effetti del Concilio; rifiutano il ragionamento che attribuisce al Vaticano II tutto quello che è successo dopo; si preoccupano per una autentica identità cristiana e segnalano i rischi di un suo smarrimento; dimostrano una certa apertura a prospettive nuove come l’opzione preferenziale per i poveri.

Nel modo come taluni teologi della liberazione parlano di Puebla si coglie a volte un certo imbarazzo, una insoddisfazione su come sono andate le cose nel corso della Conferenza e rispetto alle sue stesse conclusioni.

GUTIÉRREZ: Non direi. Qualcuno, forse, può legittimamente desiderare che si fosse toccato tal tema o talaltro o che si precisasse il senso di alcuni punti. A Puebla, nel corso della preparazione, ci furono difficoltà e posizioni contrapposte, ma il significato globale della Conferenza e il messaggio dei diversi testi sono una matura, entusiasta, critica e in molti casi commovente riaffermazione della linea di Medellin.

T.D.L., Nicaragua e “Iglesia popular”

Al Nicaragua, e più precisamente alla forma che ha assunto la presenza di taluni settori del cattolicesimo nazionale nel processo rivoluzionario, si guarda come a una buona realizzazione della Teologia della liberazione. Ritiene che la cosiddetta “Iglesia popular” sia una applicazione soddisfacente della Teologia della liberazione?

GUTIÉRREZ: Ricordo che una volta, nel corso di un’intervista ad una radio di Barcellona, l’intervistatore mi chiese se pensassi che la Teologia della liberazione fosse stata il fattore più importante nella rivoluzione sandinista. Gli risposi che il fattore più importante fu Somoza.

Non intendevo chiederle qual è stata l’influenza della Teologia della liberazione nella rivoluzione sandinista, ma se la “Iglesia popular” è una buona espressione della Teologia della liberazione.

GUTIÉRREZ: Le rispondo di no, non tanto perché stiamo parlando del Nicaragua, ma perché nessuna realizzazione storica può essere considerata come il trasferimento meccanico di una riflessione. Che la Teologia della liberazione abbia potuto contribuire a far sì che dei cristiani del Nicaragua sentissero più chiaramente di doversi impegnare nella lotta di liberazione del loro popolo, questo non dubito che possa essere avvenuto. Ma che quello che succede in Nicaragua sia il risultato della Teologia della liberazione non credo proprio possa essere sostenuto. Voglio anche precisare che i cristiani del Nicaragua non usano, ed anzi respingono, l’espressione “Iglesia popular”. È un punto che si può discutere, ma quello che mi preme precisare è che la considerano una espressione imposta dall’esterno.

Un nodo non risolto: il marxismo

Il punto che più crea discussione attorno alla Teologia della liberazione è la questione del marxismo. Non le sembra antistorica l’attenzione che la Teologia della liberazione riserva al marxismo, quando lo stesso marxismo, e agli occhi di non pochi marxisti, rivela oggi tutta la sua crisi?

GUTIÉRREZ: Penso che una sensibilità per il mondo della povertà in America Latina porti necessariamente — proprio per ragioni di onestà e di ricerca di una efficacia — a tentare di conoscerne le cause. Nel mondo contemporaneo gli strumenti che aiutano maggiormente a conoscere la realtà economica e sociale — non in maniera apodittica ma con buona approssimazione — sono le scienze sociali.

Pertanto, fare appello alle scienze sociali per conoscere il mondo della povertà mi pare del tutto naturale e necessario, e non da oggi ma da quasi cento anni. Normalmente appellarsi alle scienze sociali per un latino-americano significa appellarsi agli apporti propri che l’America Latina ha dato alle scienze sociali. Per esempio, alla teoria della dipendenza e a partire da essa spiegare una buona parte della realtà latino-americana. Nella teoria della dipendenza ci sono nozioni che provengono dal marxismo, così come ci sono nelle scienze sociali. Dunque, la presenza del marxismo nell’analisi della realtà si ha con nozioni marxiste presenti nelle scienze sociali e concretamente nella teoria della dipendenza.

Non si tratta quindi di un uso dell’analisi marxista nella sua totalità, ma di quegli elementi che sono immanenti alle scienze sociali. Lo dimostra anche il fatto che ci sono marxisti in America Latina che considerano non marxista la teoria della dipendenza e ce ne sono addirittura di molto importanti che la ritengono antimarxista. Ciò che voglio sottolineare è che in nessun momento nella Teologia della liberazione c’è stata l’intenzione di usare l’analisi marxista nella sua totalità per analizzare la realtà latino-americana.

Sempre si dice di non volere usare l’analisi marxista nella sua totalità ma solo quegli elementi presenti nelle scienze sociali, però non si indica mai quali sono questi elementi, queste categorie. Quella di dipendenza non è più, oggi, una categoria che dice molto…

GUTIÉRREZ: Ho scritto “Teología de la liberación” più di 15 anni fa… Non si può chiedere a persone che lavorarono in quegli anni di avere la visione di oggi. Anch’io credo che le cose siano cambiate molto. Molti difensori della teoria della dipendenza anche in America Latina hanno abbandonato questo modo di vedere o ne hanno criticato alcuni aspetti, si è anche fatta avanti negli ultimi dieci anni una riflessione sul socialismo reale che non esisteva quando scrissi “Teología de la liberación”. Di tutti questi aspetti critici occorrerà tenere conto, ma bisogna riconoscere che sono apporti recenti su cui lavorare.

Anche l’“Istruzione” della Congregazione per la Dottrina della Fede ha detto alcune delle ultime cose che lei sta dicendo ora, e tuttavia, davanti all’ “Istruzione”, si difende il diritto teorico di usare sia l’analisi marxista che le scienze sociali. Per esempio, da parte dell’uruguayano Juan Luis Segundo, nella sua “Risposta a Ratzinger”. Mi sembra una lotta contro i mulini a vento. Perché usare uno strumento che non serve…

GUTIÉRREZ: Non si può discutere saltando su piani diversi. Mi si stanno rivolgendo domande sulla Teologia della liberazione come teologo della liberazione e rispondo fondamentalmente a partire da ciò che io penso e faccio. Non ho ancora avuto occasione di leggere questo libro di Segundo e non posso entrare in dettagli.

Ma perché si difende teoricamente il diritto di usare uno strumento che non serve?

GUTIÉRREZ: Se lei chiede a me perché difendo questo diritto, le risponderei immediatamente che non lo difendo…

Non lo chiedo a lei perché lei non ne ha parlato e poi perché ora dice di considerarlo inutile…

GUTIÉRREZ: Sì, ma andiamo piano. Non credo che per il fatto che una cosa è superata non se ne debba parlare più. Nella cultura contemporanea restano nozioni e stimoli che provengono da una corrente di pensiero determinata. È vero che in Europa la posizione verso il marxismo è molto più critica, ma questo non vuol dire che il marxismo non eserciti una influenza.

Il padre Calvez, nell’83, ha pubblicato in Etudes un ampio articolo in occasione del centenario della morte di Marx dove traccia un bilancio degli aspetti negativi e positivi del marxismo. Padre Calvez è noto per essere un buon conoscitore del marxismo e non è mai stato accusato di essere un marxista. Dunque, ci sono elementi positivi che non solamente un latino-americano segnala.

Per Freud è lo stesso. Ci sono aspetti superati ed altri che mantengono una certa attualità. Per le scienze sociali vale lo stesso discorso.

Non è intenzione della Teologia della liberazione usare l’analisi marxista nella sua totalità — lei dice — ma elementi del marxismo presenti nelle scienze sociali. L’argentino Scannone le dà atto di compiere un’utilizzazione non servile di alcuni elementi della tradizione marxista (Marx, Gramsci, Althusser, ecc.), ma esprime perplessità sulla “possibilità reale di separare l’analisi marxista dalla comprensione globale (filosofica) dell’uomo e della storia che essa suppone”.

GUTIÉRREZ: L’analisi marxista, non certe nozioni dell’analisi marxista. Sono perfettamente d’accordo con il padre Arrupe quando nella sua lettera segnala nozioni importanti e positive nel marxismo ed aggiunge subito dopo che non si può separare l’analisi marxista nella sua integrità dalla concezione filosofica propria del marxismo. Ma non si può dire che l’uso di 2, 3, 4 nozioni marxiste equivale all’uso dell’analisi marxista in quanto tale. D’altra parte, qualsiasi utilizzazione di uno strumento di pensiero per comprendere una realtà o approfondire un’idea deve essere critica. È lo specifico di un lavoro intellettuale serio.

In un recente congresso svoltosi in Brasile, che aveva come tema “La Teologia come pratica popolare”, c’è stato qualcuno che ha citato l’illuminismo come un riferimento obbligatorio anche per chi intende fare teologia “a partire dal popolo”. Lei stesso ha fatto alcune volte affermazioni del genere. In che senso se ne può parlare visto che qui in America Latina le tesi illuministiche risultano radicalmente contraddette dalla realtà?

GUTIÉRREZ: L’illuminismo è un momento estremamente importante del pensiero contemporaneo e credo che lo sia anche per la Teologia della liberazione. Del resto, penso che una buona parte della teologia contemporanea sia il tentativo di rispondere alle sfide dell’illuminismo. Non credo però che la sfida alla Teologia della liberazione venga direttamente dalla mentalità moderna illuminista ma da quello che abbiamo chiamato “il rovescio della medaglia”, l’altra faccia della storia, quella vista dal povero. Ripeto: buona parte della teologia contemporanea è il tentativo di rispondere alla sfida dell’illuminismo; la Teologia della liberazione è piuttosto il tentativo di rispondere ad un’altra situazione. Il libro che ho appena pubblicato, “Hablar de Dios”, reca come sottotitolo: “desde el sufrimiento del inocente”. Mi sembra che questa — che era poi la domanda di Giobbe — sia anche la domanda fondamentale per la Teologia della liberazione: come parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente?

In America Latina ci troviamo anzi nella posizione di poter guardare all’illuminismo con meno illusioni, perché i poveri sono il risultato — ribaltato — di molte idee dell’illuminismo.

Il povero latino-americano, a differenza del povero pensato dall’illuminismo, è un soggetto portatore di cultura, con una sua concezione del bene e del male, un insieme di valori e di convinzioni radicati sulla vita, il lavoro e la morte. Mi sembra che, se una riflessione tiene adeguatamente conto di questo diverso punto di partenza debba anche relativizzare il ricorso a strumenti di analisi. L’identità del povero latino-americano è definita da ragioni che sono più profonde di quando non possano esplorare le scienze sociali.

GUTIÉRREZ: Sono completamente d’accordo. È un punto importante per la nostra riflessione.

Ma allora un lavoro per la liberazione è tale se sviluppa questo ethos del povero. Però in questa prospettiva lo strumento analitico diventa molto relativo…

GUTIÉRREZ: Tuttavia non può essere eliminata completamente la necessità di un’analisi. Non si può negare che le condizioni del povero in America Latina sono tali perché il sistema economico mondiale è organizzato in una determinata maniera. Ed a questo livello è necessaria un’analisi. Non si può togliere ogni valore alle scienze sociali. Anch’io sono d’accordo nell’affermarne la relatività, ma questo non toglie la loro funzione. Le dirò anzi che oggi, dopo tanti anni, sono ancora più cosciente di ieri della relatività che hanno le scienze sociali. Del resto, sarebbe stato impossibile 15 o 20 anni fa avere la chiarezza di oggi. Avremmo dovuto essere molto più geniali di quanto non si tenti di essere. Ripeto però che le scienze sociali restano uno strumento necessario per conoscere certi aspetti della realtà. A volte ci si accusa di voler fare un uso “scientifico” di determinati strumenti di analisi. Ma scientifico non vuol dire apodittico; semplicemente vuol dire critico.

Non nel marxismo. In un orizzonte marxista scientifico vuol dire apodittico…

GUTIÉRREZ: Stiamo parlando di scienze sociali.

Nei suoi scritti, come nei suoi discorsi, ricorrono con frequenza idee e immagini che esprimono la fondamentale dialettica vita-morte. Direi addirittura che questa è la sua impostazione ermeneutica…

GUTIÉRREZ: Sì, è così.

Si può fare teologia senza una antropologia?

Però la forma che lei dà a questa dialettica è sempre storico-culturale. Perché non una forma antropologica? Preciso meglio. Lei pone il conflitto vita-morte dentro la forma della povertà. Io capisco che ci troviamo in America Latina e che questo è il dramma. Però perché non guardare e pensare questa dialettica come una realtà che definisce la struttura antropologica dell’uomo più ancora e prima che la congiuntura storica? È una mancanza o una censura antropologica? È vero che qualcuno, tra i teologi della liberazione, ha provato a delineare una antropologia della Teologia della liberazione. Ma si capisce che sono forzature, che l’antropologia non è costitutiva, fondante la Teologia della liberazione.

GUTIÉRREZ: Dico subito che sono molte le cose che nella Teologia della liberazione ancora non sono state approfondite e sufficientemente lavorate. Quella a cui lei ha accennato è una. Va tenuto però ben presente che ognuno di noi riflette a partire dalle urgenze del proprio contesto. E per noi il problema è quello di una povertà che significa la morte di tantissime persone. Perciò se lei segnala un’assenza di riflessione antropologica non ho difficoltà a riconoscerla; se invece accusa una censura le rispondo di no, che non c’è censura. La Teologia della liberazione nasce dal contrasto tra una ingiusta realtà marcata da una morte ingiusta e la necessità di annunciare il Dio della vita…

Ma quando la morte è giusta? Questi giorni, in Colombia, un capo guerrigliero che comanda 200 uomini circa ne ha ammazzati 164 perché li sospettava di essere degli infiltrati dell’esercito…

GUTIÉRREZ: Dipende cosa vuol dire. C’è anche chi muore di vecchiaia a 100 anni e chi di fame a 15 anni. I domenicani del XVI secolo scrivevano in Europa dicendo che in America Latina “la gente muore prima del tempo”. Questa frase continua ad essere perfettamente vera nel XX secolo. La gente muore prima del tempo e per cause evitabili.

Quando io ero studente in Francia lessi una biografia di un padre della Chiesa, e l’autore — un francese — alla fine del libro scrisse: “al final de su vida murió”. Mi parve, sul momento, un’ironia alla francese, perché cos’altro gli poteva capitare alla fine della vita se non morire.

Ma rientrando in Perù mi tornò alla mente quella frase e capii che aveva un senso perché qui la maggior parte della gente muore all’inizio della sua vita, non alla fine. Non dico che non ci siano altre morti ingiuste ma questa, dovuta alla povertà, è la morte con cui abbiamo a che fare quotidianamente. Nella mia parrocchia, ogni domenica, devo annunciare l’amore di Dio a gente che vive come può. Questa è per noi una sfida pastorale enorme. E credo che una teologia debba nascere da problemi pastorali.

Ma come si può fare una teologia senza una antropologia?

GUTIÉRREZ: Ho già detto che non ho difficoltà a riconoscere che si tratta di un livello che va approfondito, ma senza esagerarne l’assenza! Una antropologia di base nella Teologia della liberazione c’è. Implicita ma anche esplicita. Il tema della libertà dell’uomo è un tema molto lavorato in “Teología de la liberación”. Nello stesso “Beber en su propio pozo” c’è una parte abbastanza ampia sulla nozione di corpo, carne e spirito in San Paolo. E questa è antropologia.

C’è un’assenza vistosa nella Teologia della liberazione: un discorso sul “socialismo reale”. Perché i teologi della liberazione nei loro scritti ignorano quasi completamente il socialismo reale? Non ricordo di aver letto nessuna critica seria e organica al regime sovietico ed ai paesi satelliti…

GUTIÉRREZ: Ci sono alcune piccole cose nei nostri scritti che le potrei citare; tuttavia, non ho difficoltà a riconoscere che è un punto su cui occorrerà lavorare. Agli inizi della Teologia della liberazione non c’era la riflessione che c’è oggi attorno al socialismo reale.

Quindi è un’assenza che vi proponete di colmare…

GUTIÉRREZ: Sì, dovrà diventare un punto di lavoro.

Non si è saputo neppure di una effettiva solidarietà dei teologi della liberazione con “Solidarnosc”. Perché?

GUTIÉRREZ: I teologi della liberazione non sono un gruppo che produce dichiarazioni. Ad ogni modo mi risulta che alcuni hanno firmato, con altri connazionali non necessariamente teologi, testi di solidarietà e di condanna contro le violazioni dei diritti umani in Polonia. Nei nostri paesi le espressioni di solidarietà con “Solidarnosc” spesso vennero promosse da persone che non dimostrano la stessa sensibilità per la violazione dei diritti umani nella nostra stessa realtà, e questo può essere stato un motivo di difficoltà. Ma anche su questo punto bisogna evitare di cadere in polemiche meschine. Non c’è dubbio che si deve saper essere presenti lì dove la libertà e i diritti umani, quello alla vita soprattutto, sono violati da atteggiamenti totalitari, di qualunque segno.

Quasi un anno fa, a marzo, durante la visita del Papa in Perù, lei dichiarò ad un giornale: “Per il mio popolo è una festa stare con il Papa. Ed io sto con il mio popolo e partecipo a questa festa”. Ho citato a memoria ma mi pare che questa sia l’espressione esatta. Restava però il dubbio: seguire il Papa o seguire il popolo?

GUTIÉRREZ: Per quel che mi riguarda non esistevano dubbi: entrambi, certamente. La risposta che diedi in quell’occasione si riferiva al senso della domanda che mi veniva rivolta. Cercavo di mostrare a giornalisti stranieri che non capiscono molto la nostra psicologia, che il popolo peruviano ha un grande senso festivo, nell’accezione profonda del termine, e che questa dimensione festiva che nasce dalla fede si esprimeva pienamente nell’accoglienza al Papa.

Secondo lei per cosa il pontificato di Giovanni Paolo II passerà alla storia?

GUTIÉRREZ: Non credo di avere una tale prospettiva storica da poter affermare categoricamente su quali punti passerà alla storia. Quello che posso dire, dall’interno di una prospettiva latino-americana, è che la sensibilità del Papa per il mondo del lavoro e per quello senza lavoro, per il sociale e per la Chiesa dei poveri, ha un peso molto importante nella vita degli uomini di questo continente. Così come ce l’ha la sua preoccupazione per l’integrità del messaggio cristiano. Queste dimensioni dell’insegnamento di Giovanni Paolo II stanno segnando in profondità le Chiese dell’America Latina. Quando è uscita la “Laborem exercens” ho scritto un lungo articolo sugli aspetti teologici dell’enciclica perché credo che un testo come questo sia di estrema importanza per l’America Latina. Così come la preoccupazione del Papa per l’integrità del messaggio cristiano: la espresse in Perù con una frase divenuta celebre. A Villa Salvador, improvvisando, riprese le parole del popolo peruviano e disse: “hambre de Dios sì, hambre de pan no…”. Se fosse per questo che il Papa passerà alla storia non saprei proprio dire. Spero di sì.

Sembra imminente la pubblicazione di un secondo documento da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla “Teologia della liberazione”. Si tratta del cosiddetto documento “positivo” che preannunciò la stessa “Istruzione” del settembre 1984, aggiungendo che avrebbe sviluppato il tema libertà cristiana e liberazione. Innanzitutto, lo ritiene necessario?

GUTIÉRREZ: Certamente. La “Istruzione” fu in un certo senso un documento un po’ speciale, che ne annunciava un altro, positivo, sullo stesso tema di cui si stava occupando.

Credo che l’insieme dei due documenti offrirà la posizione più chiara, critica e di incoraggiamento ad una prospettiva teologica.

Lei personalmente che cosa vorrebbe che venisse sviluppato in questo secondo testo?

GUTIÉRREZ: Il tema biblico della liberazione come strada alla libertà. È poi importante che si affermi che la ragione ultima della preferenza per il povero è nel Dio che si rivela in Gesù Cristo, e non solo in questa o quella situazione storica o analisi sociale per quanto importante.

È anche importante che sia segnalata l’urgenza, per la Chiesa intera, di un impegno evangelizzatore (gesti e parole) con tutte le persone e in particolare con i poveri, sfruttati e insignificanti della storia. Desidererei molto che il nuovo documento tenesse presente la testimonianza di chi, in diverse parti del mondo, ha dato la propria vita per annunciare il Dio di Gesù Cristo.

“I miei rapporti con Roma”

Quali sono i suoi rapporti con Roma?

GUTIÉRREZ: Di amicizia, con un buon numero di persone. Ma forse la sua domanda allude ad altro. Le dirò che non ho mai ricevuto nessuna lettera da alcun dicastero romano e non conosco la carta intestata della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non dico che non potrà succedere, ma fino ad ora le cose stanno come ho detto.

Conosce personalmente il cardinale Ratzinger?

GUTIÉRREZ: Durante il Concilio non lo conobbi (Gustavo Gutiérrez partecipò come esperto al Vaticano II, n.d.r.). Allora, per me, era un teologo tra altri. Mi preme precisare che formalmente non ho ricevuto alcuna convocazione. Se avverrà in futuro non mi offenderò di certo, io credo che il magistero abbia il dovere di vigilare. Se accadesse, naturalmente mi dispiacerebbe perché vuol dire che si pensa che ho scritto cose che non sono chiare o che sono equivocate. Ma mi dispiacerei per me stesso, non mi sentirei certamente offeso se un giorno ricevessi qualcosa.

Ricorda gli anni della rivista “Víspera” e le persone che vi facevano capo?

GUTIÉRREZ: Molto bene. Con molti conservo rapporti di amicizia anche se abbiamo punti di vista differenti sull’America Latina e sulla Chiesa in America Latina.

Mi pare che dopo Puebla non ci sia più stato molto dialogo, ed anzi si sia avuta una certa radicalizzazione?

GUTIÉRREZ: È vero che negli ultimi anni non ci siamo incontrati spesso. E credo che dipenda da due cose. Primo, dalla mancanza di opportunità concrete. Un tempo il Celam era un luogo che permetteva incontri di persone diverse, oggi ci sono alcuni, come me, che non sono più invitati ad incontri del Celam. Secondo, dall’esistenza di discrepanze nel giudicare la realtà. Però insisto nel dire, almeno per quello che mi riguarda, che queste differenze non significano una rottura a livello di amicizia. Credo che occorra saper collocare certe relazioni umane al di sopra delle differenze, di analisi e teologiche. Se non restassero amici anche quelli che non la pensano esattamente come noi, finiremmo in manicomio.

Francesco Ricci – Alver Metalli

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