La riscoperta del cuore

«La quarta enciclica di Francesco avrebbe cose da dire» scrive Lucio Brunelli in un commento sull’Osservatore Romano, «interessanti non solo per i fedeli cattolici, primi destinatari del documento, ma anche per laici “increduli”, quelli almeno più curiosi e inquieti». Di seguito l’articolo…

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(Lucio Brunelli). «Su questo ti sentiremo un’altra volta». L’atteggiamento con cui i media più influenti si sono approcciati all’ultima enciclica del Papa ricorda un po’ i sorrisini che accolsero la predicazione di Paolo all’areopago di Atene, allorché davanti ad un uditorio fra i più raffinati del tempo l’apostolo delle genti iniziò a parlare della resurrezione di Cristo. Di fronte all’inerzia di un meccanismo che per alimentarsi ha bisogno di titoli strillabili e di facile consumo, la Dilexit nos è apparsa forse un oggetto misterioso, mediaticamente indigesto. L’annunciato e «strano» tema della devozione al Cuore di Cristo è stato subito percepito come argomento di nicchia, per i pochi superstiti devoti, non interessante per il lettore medio di un grande giornale.

Nessuna meraviglia e nessuna accusa, viviamo in un mondo che non è più cristiano (e sempre più omologato). Eppure, la quarta enciclica di Francesco avrebbe cose da dire, interessanti, non solo per i fedeli cattolici, primi destinatari del documento, ma anche per laici «increduli», quelli almeno più curiosi e inquieti.

La prima parte del documento parla infatti di una realtà che tutti possiamo avvertire: il mondo «sta perdendo il cuore». Il Papa non si riferisce solo a una perdita di «sentimenti», che pure è evidente; ad esempio, di fronte al dramma senza fine della guerra. Argomento, la guerra, che almeno in certe élite politico-economiche sta diventando tema di discussione «normale», opzione che non suscita più quell’orrore che in noi comuni mortali continua per fortuna a suscitare.

Diceva sant’Agostino che «chi considera senza angoscia dell’animo i mali della guerra ha perduto il sentimento umano». Affermazione di un’attualità sconvolgente. Il Papa pensa a questa perdita di sentimenti umani elementari, e riflette sul bisogno vitale di ritrovare il cuore inteso come il proprio io più vero, sepolto sotto «un fogliame» che nasconde e oblitera le domande più autentiche: «chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine…». Domande che da sotto quel fogliame non possono non riaffiorare, almeno a tratti, in ognuno di noi. Come voglia di senso, desiderio di una vita degna.

Francesco però è realista. Sa che non basta sapere o volere cosa è giusto e degno. «Il nostro cuore è fragile ed è ferito». Sarebbe una forma di «moralismo autosufficiente» illudersi di riuscire ad essere buoni o giusti con le sole nostre forze. Come chiedeva il pastore Brand nel dramma di Ibsen: «non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?». Una percezione drammatica e in questo molto «moderna», post-illuminista, della condizione umana.

Drammaticità che non si avverte in certa predicazione moralistica, tutta e solo centrata sul «dover essere» e anche per questo motivo sentita lontana mille miglia esistenziali da chi, dall’esterno, si affaccia nelle nostre chiese. Scrive Francesco: «per vivere secondo questa dignità non basta conoscere il Vangelo né fare meccanicamente ciò che esso ci comanda. Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’amore divino. Andiamo al Cuore di Cristo, il centro del suo essere, che è una fornace ardente di amore divino e umano ed è la massima pienezza che possa raggiungere l’essere umano. È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare».

Chi non crede e cerca sinceramente la verità di sé stesso, può arrivare fino a questa soglia: sentire con dolore il limite strutturale, le ferite del proprio cuore. Un io diviso, la necessità di un principio interiore che unifichi la propria personalità.

Il passo ulteriore, oltre questa soglia, ci porta nel territorio della Grazia. È un dono sia imbattersi in «Gesù vivo e presente», sia restarne attratti. Tutto il resto della enciclica si muove in questo territorio. Dire che è Grazia significa proprio questo: è Lui che «ci ama» (dilexit nos), è Lui che ci «conquista» con il fascino della sua umanità.

I brani più suggestivi sono quelli in cui il Papa ci mostra il cuore di Gesù in azione in alcuni episodi dei Vangeli. La misericordia di Cristo, traboccante nell’incontro con l’adultera, il cieco, la samaritana… Un vortice di immagini, gesti, sguardi, parole che cattura l’anima. Emoziona ed attira. Torna in mente quanto scriveva Tommaso d’Aquino nella sua Summa: «Al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo».

Nella parte centrale del documento Francesco approfondisce la genesi e il significato della devozione popolare al Sacro Cuore. Con abbondanti citazioni di santi che di essa hanno fatto il fulcro della loro vita spirituale. È la parte più meditativa. Da leggere con calma, con spirito di domanda e di preghiera.

Impressiona la tranquillità con cui un Papa a volte insultato come «modernista» valorizzi invece tutte le pratiche della pietà popolare. I primi venerdì del mese, le vie crucis, la spiritualità del prezioso sangue, le pratiche eucaristiche…

Francesco invita gli intellettuali cattolici a non «farsi beffe» della fede popolare. Vede in essa un buon antidoto contro un nuovo «gnosticismo» che toglie carne alla salvezza cristiana e un «giansenismo» che trasforma il cristianesimo in una religione tutta fredda e razionale dove non sembra esserci più posto per il «dono delle lacrime» e la gratuità della misericordia divina.

Un’enciclica intimista, quindi? Il Papa è molto chiaro su questo punto. Contemplare il Cuore trafitto di Gesù, immedesimarsi nel suo Amore, quando non è solo rimirare un’immaginetta ingiallita, apre a uno sguardo di tenerezza e operosa carità verso i più poveri. Scrive espressamente che le due precedenti encicliche sociali non si capirebbero senza «il nostro incontro con l’amore di Cristo». Spazzando via letture riduttive del pontificato.

Ha scritto con grande chiarezza e onestà Antonio Socci: «Un tema mistico e tradizionale come il Sacro Cuore sorprenderà chi (progressisti e tradizionalisti) ha interpretato l’attuale pontificato in chiave politico-ideologica. In effetti Francesco è diverso da come l’abbiamo dipinto per anni sui media».

In questa enciclica è come se Francesco ci aprisse con pudore la sua anima, svelando anche ai «lontani» il punto sorgivo della sua passione per l’umanità ferita, l’amicizia che riempie la sua vita: «Parlare di Cristo, con la testimonianza o la parola, in modo tale che gli altri non debbano fare un grande sforzo per amarlo, questo è il desiderio più grande di un missionario dell’anima (…) Con il massimo rispetto per la libertà e la dignità dell’altro, l’innamorato semplicemente spera che gli sia permesso di raccontare questa amicizia che riempie la sua vita».