Nel mese in cui ricorre il diciottesimo anniversario della morte di don Giussani (22 febbraio 2005), pubblichiamo il primo capitolo del libro Tierra prometida dedicato agli anni 1973-1984, che lo vedono presente in vari punti dell’America del Sud (Nella foto don Giussani accompagna la partenza di suor Emmanuela per l’Argentina, dove la raggiungerà qualche mese dopo, nel 1973). Il libro è di recente uscita in italiano ed è prossima la sua pubblicazione in lingua spagnola. Può essere acquistato anche in formato digitale nel sito della casa editrice Pagina o ordinato su Amazon.
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(Alver Metalli) Questo libro è la storia di una corrente di amicizie che scava un solco nella più vasta storia degli uomini del nostro tempo. Come tutte le storie particolari si svolge in un momento e in uno spazio determinati, nel nostro caso compreso tra il 1973 e il 1984, a cavallo tra Italia e America del Sud.
È una storia che ha al centro un uomo.
Tempo, spazio e uomo si chiariranno leggendo le pagine che seguono nella loro progressione, scandita dai ritmi peculiari di una amicizia che si dilata, in un’epoca in cui le comunicazioni non avevano le sofisticate possibilità di oggi. Le lunghe distanze – nel decennio considerato – si percorrevano in aereo o in nave, quelle più brevi, in auto o in pullman. I messaggi si scrivevano con delle macchine da scrivere e saltuariamente si usava il telefono, i cui costi non tutti si potevano permettere. Di questo trattano le pagine seguenti: di rapporti tra uomini in luoghi distanti tra loro, che si dettagliano e si approfondiscono in forza della linfa vitale che da un certo momento in poi inizia a scorrere nei gangli più intimi delle loro relazioni.
A questo punto è doverosa una considerazione sulle ragioni che mi hanno spinto ad intraprendere questo progetto. Il motivo principale che guida il libro è uno slancio di riconoscenza verso l’uomo al centro di questa storia di amici in perenne movimento. Il secondo motivo sono gli amici stessi, quelli che ancora vivono, e quelli che non ci sono più. Tanto i primi come i secondi meritano di essere ricordati il più a lungo possibile.
L’una cosa e l’altra, la gratitudine e il ricordo, mi hanno spinto davanti al computer dove peraltro trascorro abitualmente molta parte del mio tempo per ragioni di lavoro. Ma questa volta è stato diverso. Non c’era un input professionale che mi obbligasse a scrivere, e a scandire anche i tempi successivi, quelli della pubblicazione. Ho potuto godere di una insperata libertà. Mi sono seduto di fronte al notebook acceso, ho lanciato il documento word e sono rimasto una buona mezz’ora a fissare la pagina bianca mentre il cursore lampeggiava. Intanto un pulviscolo di ricordi si smuoveva dal fondo della memoria dove si era sedimentato ed entrava in una sorta di emulsione.
Ci sono volute diverse altre accensioni e spegnimenti del computer prima che la nebulosa si depositasse decantando volti, figure e circostanze. Da quel momento non sono più potuto tornare indietro e – proseguendo nella metafora – ho iniziato a prendere l’estremità di qualche filamento di ricordo e a tirarlo verso la superficie. Dietro, appiccicati come i molluschi alla catena delle ancore, ne sono venuti altri e altri ancora. Volti antichi e più recenti, circostanze, luoghi e momenti di persone, finanche sapori, odori e musiche legate ad accadimenti mai veramente dimenticati. Le cose importanti nella vita hanno le loro leggi, non scompaiono ma influiscono in tempi e modi misteriosi su un eterno presente.
Il passo seguente è stato cercare e-mail, numeri di telefono, WhatsApp di persone di cui avevo notizie sporadiche e di altre che non sapevo neppure più se fossero vive o morte, o se fossero sopravvissute alla pandemia che ha squassato il mondo e a cui doveva succedere una guerra altrettanto devastante nel cuore d’Europa. Quello successivo ancora è stato scrivere e-mail, telefonare e lasciare comunicazioni sui Messenger delle pagine Facebook.
Erano quasi tutte vive, per fortuna mia e di chi si lascerà coinvolgere da queste pagine.
Alcune di loro non hanno nascosto la sorpresa – una volta manifestato il proposito di quella presa di contatto dopo tanto tempo. Mezzo secolo in alcuni casi! A tutti gli amici ritrovati ho chiesto di ricordare circostanze condivise, momenti trascorsi, parole dette e ascoltate, di rievocare i perché, come e quando, per illuminare intrecci che il tempo ha annebbiato ma non cancellato. Via via che procedevo su questa strada anche il cursore del computer si muoveva al ritmo dei fatti che tornavano a vivere e assumevano le sembianze ordinate di una trama. Meglio, di un passaparola, di una corrente che si faceva strada nel più grande flusso della storia con la S maiuscola, un po’ come fa un torrente sabbioso quando confluisce nelle acque di un lago e per un buon tratto le colora con tonalità differenti prima di disperdersi.
Con grande generosità quasi tutti gli interpellati hanno scavato nei loro ricordi aggiungendo ciascuno uno o più tasselli al mosaico che si andava formando. Dall’Italia, dall’Argentina, dall’Uruguay, dal Venezuela, dal Brasile, dal Cile si è messa in movimento una catena di complicità e di simpatie, di amicizie rianimate, come in tempi passati. Sono stati tanti, tantissimi gli apporti scritti, i rimandi a testi editi e inediti, le lettere per così dire tirate fuori dagli antichi bauli dov’erano state seppellite, e con le lettere vecchie fotografie ingiallite; tantissime le e-mail e i WhatsApp che viaggiavano da un capo all’altro dell’oceano con una facilità inusitata in altri tempi, in barba, adesso, alla vischiosità delle comunicazioni di quando ci eravamo conosciuti e che, però, anche così non avevano impedito l’accadere di quello che racconteremo.
E così, mentre i ricordi facevano venire in superficie altri ricordi ancora, una lenta carovana di episodi passavano davanti gli occhi della memoria. Le pagine del computer si riempivano. I limiti temporali si spostavano avanti e indietro, i confini geografici dell’indagine iniziale scricchiolavano, il proposito di partenza di scrivere qualcosa di limitato si sfilacciava sempre di più. L’articolo del primo pensiero ha assunto le dimensioni di un libro che alla fine rileggo con sorpresa e ammirazione per la sapienza con cui il destino, si creda o no nel suo consapevole finalismo, ha condotto le cose. Senza nulla togliere al fatto che una ricostruzione storica è irrimediabilmente parziale. C’è sempre qualcosa che sfugge agli intenti ordinatori, agli sforzi di dissotterrare ricordi, al lavoro per sistematizzare nessi. È giusto averne coscienza per non incorrere nella presunzione di pensare, e dire, che non c’è più altro da scrivere e da ricercare sugli anni che costituiscono l’oggetto di questo racconto. Per quanto accurata sia una narrazione, una volta esternata, ci si accorge che abbisogna di integrazioni, di dettagli, di altre mani che la completino dove essa inciampa, di volontà ulteriori che la prolunghino oltre i limiti e l’epilogo prescelto.
Benvenute siano le precisazioni, le correzioni e le integrazioni. Altri, se vorranno, potranno anche estendere nel tempo il segmento indagato e allargarlo ad altre aree geografiche qui appena sfiorate. Ma ora è arrivato il momento di cominciare, e partiremo dal filo più lontano, dall’impronta più remota nel tempo. Rituffiamoci nell’Argentina degli anni Settanta, in un punto della pampa a 350 chilometri da Buenos Aires…