… Ma solo nel senso che Luis Dri, da oggi settimo porporato argentino in vita, non entrerà nel collegio cardinalizio come elettore. Continuerà invece a fare il confessore in un santuario di Buenos Aires come ha fatto in tutta la sua vita.
(Alver Metalli) La Chiesa argentina vive un avvenimento singolare, quello di un ultraottantenne che ha trascorso buona parte della vita in un confessionale, che si aggiungerà al collegio cardinalizio di papa Francesco. Luis Dri, argentino, primo di nove fratelli – caso probabilmente unico – tutti ordinati sacerdoti o monache, è più vicino ai 97 anni che ai 96, dieci in più di chi l’ha scelto per la porpora rossa.
L’età, naturalmente, lo priva della facoltà di eleggere il successore del pontefice regnante, ma non quello di sottolineare agli occhi dei suoi contemporanei delle qualità che lo distinguono dagli altri confratelli che già indossano l’abito cardinalizio. Come quella di confessore imperterrito che dispensa agli uomini quella che considera la potente medicina del perdono.
Lo cercammo su input del Papa, Andrea Tornielli – oggi responsabile dei media vaticani – e il sottoscritto, qualche anno fa. Lo scovammo nella sua postazione di lavoro, un angusto confessionale di una basilica di Buenos Aires che sorge ai margini di una popolosa villa miseria che è un po’ la base dei cosiddetti preti della villas, come in Argentina si designano le immense baraccopoli che chiazzano la capitale e la sua periferia. Si sorprese di essere al centro dell’attenzione dei giornalisti, una razza con cui non aveva ancora avuto a che fare, ma si sorprese ancor di più quando gli rivelammo l’identità del mandante.
Da quel momento prese il via una lunga conversazione durata qualche mese che dette vita ad un libro che lo stesso Bergoglio divenuto Papa accettò di prologare. Partendo da un dubbio su di sé – quello di essere eccessivamente perdonatore – e da un episodio che lo colpì e che raccontò in varie occasioni. «Gli avevo chiesto che cosa facesse quando, uscendo dal confessionale dove aveva trascorso molte ore della giornata, avvertiva lo scrupolo di aver perdonato troppo. Mi disse che era solito andare di fronte al Tabernacolo, di fronte al Santissimo Sacramento, chiedendo lui stesso perdono per aver troppo perdonato e che concludeva rivolgendosi così a Gesù: “Ma sei stato Tu che mi hai dato il cattivo esempio!”».
Il Dri di oggi si muove sulla sedia a rotelle, ha vari acciacchi, diverse fratture, ha subito varie operazioni chirurgiche, è sopravvissuto ad un cancro al colon. Ma è vivo, in discreta salute, proiettato verso il secolo di vita, facendo quello che ha sempre fatto: confessare. Dice di aver saputo la notizia della sua nomina a cardinale l’indomani dell’annuncio papale, di mattina presto, e di aver reagito con una risata perché considerava che chi gliela stava riferendo lo volesse prendere in giro. Poi, quando ha capito che la porpora gli sarebbe stata data davvero si è messo a piangere a dirotto, esclamando tra un singhiozzo e l’altro che lui doveva essere il primo ad essere perdonato, come si può vedere nell’inseparabile opera di Rembrandt che ha affisso nel confessionale del figlio scapestrato abbracciato dal padre. A distanza di qualche ora riflette che la nomina lo “obbliga a occuparmi di più della Chiesa, e anche del Papa che – ammette – è molto criticato qui da noi”. Lui è di quelli che desiderano la visita del Papa in Argentina. In una Argentina drammaticamente polarizzata e alla vigilia di elezioni inedite dove ha fatto irruzione una ultradestra urlante e scomposta che non lesina parole insultanti al successore di Pietro.
“Non basta dire libertà libertà” osserva il nuovo porporato; “purtroppo il popolo non è popolo, l’Argentina non è Nazione. Ogniuno pensa a sé stesso, accecato e dimentico dell’altro”. Lo dice con gli occhi del confessore che considera il perdono come “un argine al male sociale, all’egoismo che deborda in progetto politico, alle visioni che escludono, emarginano, puntano al benessere di pochi”. Qualcosa, ricorda, che ha notato anche il defunto Benedetto XVI che aveva visto nella misericordia “l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male”. Per questo Papa Francesco può dire che “il perdono è la base di qualunque progetto di società futura più giusta e solidale” dice Dri.
Il Papa, dal canto suo, l’ha ripetuto qualche giorno fa, commentando una pagina di vangelo con molte cifre: settanta volte sette, 100 danari, 10 mila talenti: “Il perdono è un’altra misura, è l’ossigeno che purifica l’aria inquinata dall’odio, il perdono è l’antidoto che risana i veleni del rancore, è la via per disinnescare la rabbia e guarire tante malattie del cuore che contaminano la società”.
Dri ha dalla sua il fatto di aver perdonato sempre. O quasi sempre. In sessant’anni da confessore si rammarica di non averlo fatto in alcune, poche, occasioni: quando chi gli si è inginocchiato davanti ha premesso che lui non si pentiva affatto. «Può darsi che non abbia fatto tutto il possibile per suscitare nei penitenti la disposizione opportuna», lamenta anche in questi casi.
Dopo il passaggio della pandemia ha ripreso la sua abitudine di baciare la mano al penitente. Come altri confessori famosi. Ha conosciuto padre Pio e si è confessato con lui. Ricorda l’esordio del burbero cappuccino di Pietrelcina quando gli venne presentato il confessore argentino: “Cosa vuole questo indio qui” e l’abituale lamento sulla sofferenza che lo accompagnava. Dri ammira Mandich. «San Leopoldo era convinto – e lo diceva – che Dio preferisse “il difetto che porta all’umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa” che ingessa in una finta irreprensibilità e inibisce il desiderio di convertirsi». Più laicamente cita Mandela quando parla del perdono come “l’unica maniera che i nemici siano sempre meno”.
Con Luis Dri i cardinali argentini viventi saranno sette: Mario Poli, Leonardo Sandri, Luis Héctor Villalba ed Estanislao Karlic, questi ultimi due maggiori di 80 anni, a cui si aggiungeranno i neoeletti Víctor Manuel Fernández e l’arcivescovo di Cordoba Ángel Sixto Rossi.