Rimuovere i mosaici di Rupnik?

La questione è stata posta. O malposta. Ed ha bisogno di una riflessione seria che mette in guardia dagli estremismi della cancel culture. Quella che pubblichiamo di seguito, apparsa sul quotidiano Avvenire, è una riflessione quantomai opportuna. [Nella fotografia di copertina i mosaici di Rupnik nel santuario di Lourdes.

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(Alessandro Beltrami) Che fare delle opere di Marko Ivan Rupnik? La questione, già emersa in contemporanea alle accuse sugli abusi che avrebbe perpetrato l’ormai ex gesuita e artista, e sui quali è in corso un’indagine, è ritornata al centro del dibattito dopo che il presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori, il cardinale Sean O’Malley, si è rivolto ai dicasteri della Curia Romana invitandoli a evitare di esporre o usare le sue opere d’arte in un modo che possa far presumere un atteggiamento «di assoluzione o sottile difesa» o che possa indicare «indifferenza al dolore e alla sofferenza» delle vittime.

Nei giorni scorsi il vescovo di Lourdes Jean-Marc Micas ha diramato una dichiarazione molto interessante sul problema dei mosaici realizzati da Rupnik sulla facciata della basilica della Madonna del Rosario: «I mosaici devono essere lasciati dove sono? – ha scritto Micas – Devono essere distrutti? Dovrebbero essere rimossi o esposti altrove? Non c’è consenso su nessuna delle proposte». Ieri si è saputo che saranno coperti in due chiese americane: nel santuario nazionale di San Giovanni Paolo II a Washington e nella Cappella della Sacra Famiglia presso la sede centrale dei Cavalieri di Colombo a New Haven.

Il fatto interessante è che il motivo della rimozione non riguarda le opere, ma le vittime. È la prima volta che questo avviene nel campo della cosiddetta “arte sacra” – dove la questione è sempre stata di tipo dottrinale o di gusto – e per esteso del patrimonio ecclesiale. E lo fa con un’ulteriore prima volta: perché qui vediamo in atto nel presente e in tempo reale il fenomeno che coinvolge monumenti e musei, e che al di là degli estremismi della cancel culture, sta attivando un dibattito particolarmente interessante attorno a un passato non più tanto glorioso come è stato raccontato.

Rimuovere, conservare, depotenziare, ricomprendere sono i verbi di questo dibattito, che ritroviamo a Lourdes e che, come a Lourdes, non ha risposte preconfezionate. Ed è difficile non individuare come attorno ai mosaici di Rupnik si stiano agitando forme di resistenza ideologiche e ondate emotive. Tutto questo risponde a un’esigenza di giustizia, di cui hanno diritto le presunte vittime, il presunto colpevole e le presunte opere d’arte?

Sarebbe bello credere ancora che estetica ed etica vadano a braccetto. Purtroppo, le opere d’arte non si possono valutare in base alla moralità dell’autore. Certo, nel caso di Rupnik la ferita è aperta e lo scandalo è grande. Ipotizziamo però che le molte commissioni ricevute siano state dovute al fatto che si riconoscesse nel suo lavoro una validità estetica e teologica. Se è così, se quelle opere sono valide esteticamente e teologicamente, forse dovrebbero sopravvivere, perché il loro contenuto è buono al di là dell’autore e dei suoi peccati. Se invece così non fosse, non solo dovremmo toglierle ma non avremmo nemmeno dovuto commissionarle. Questo sarebbe ancora più vero, e grave, se riconoscessimo nella loro forma la perversione dell’autore – ma la posizione non pare scevra da morbosa ipocrisia.

Forse, però, la risposta alla domanda è un’altra: queste immagini, più semplicemente, erano una soluzione facile e popolare, rispondente a un desiderio di compromesso. Le celebratissime opere di Rupnik appagavano l’illusione di un’arte insieme moderna e che ripristinasse l’icona. Non erano nessuna delle due cose e, anzi, le simulavano entrambe: come decorazione e come impossibile, nostalgico alone di fumo. Il dibattito, dunque, non dovrebbe dimenticare di riflettere anche sui processi di committenza, utile discernimento (sebbene mai esente dal rischio) per il futuro.