Pubblico il racconto Non c’è pena per un gatto, incluso nella raccolta on-line edita da Marietti con il titolo generale Il venditore di rubinetti e altri racconti. L’illustrazione che lo accompagna è stata realizzata dalla disegnatrice grafica argentina Florencia Thomsen. Il libro di racconti può essere acquistato su Amazon e le altre piattaforme di vendita on-line.
(Alver Metalli) In un punto di Città del Messico, in un sobborgo residenziale di buona reputazione, viveva il personaggio di cui mi accingo a parlare, una donna, una donna che dava da mangiare ai gatti. Il fatto curioso non è l’attività in sé, né che ci fosse qualcuno che vi si dedicasse: in tutti i quartieri bene abitano signore che si prendono cura dei gatti. Semmai era singolare che lo facesse tutti i giorni con santa pazienza, e di questo ho potuto esserne testimone oculare per sette mesi consecutivi. Non ci fu un solo giorno, dei molti che ho potuto osservare in questo lasso di tempo, che la donna a cui mi riferisco non abbia adempiuto a questa… Pratica? Dovere? Impellenza interiore? Non saprei come chiamarla. Vero è che quando s’avvicinava l’ora del pasto – alle otto e trenta del mattino, con un margine di scostamento di pochi minuti prima o dopo – i gatti della zona lasciavano le loro occupazioni e si avvicinavano alla casa di mattoni rossi dove la donna viveva in un rione di gente rispettabile. Segno inequivocabile, quest’ultimo, che da tempo – ben prima che cominciassi ad essere involontario spettatore di quel loro comportamento – i felini del quartiere avevano interiorizzato quel condizionamento alimentare.
In pochi minuti il numero dei commensali aumentava, divenendo, i gatti, una saltellante e arzilla brigata. Sbucavano dalla siepe di alloro che demarcava il confine del giardino con quello della casa vicina, saltavano un muricciolo basso di mattoni rossi posto all’estremità opposta, si schiacciavano sotto la staccionata di legno che connetteva la casa ad un pozzo di pietra poco distante dall’ingresso. Se la maggior parte dei gatti proveniva dal vicinato, e alcuni li riconoscevo io stesso per averli visti nei giardini di altre case, altri arrivavano all’appuntamento da chissà dove. Questi ultimi, i ritardatari, attraversavano la strada a tutta velocità e s’infilavano sotto il cancelletto bianco andando ad occupare la loro posizione sul prato del giardino tra i gatti che già erano arrivati al festino quotidiano.
Ma la cosa veramente notevole della consuetudine d’alimentare i gatti, ancor più della fedeltà nel farlo, era la donna che li convocava al pasto: una ragazza giovane d’età, di una bellezza straordinaria ed altrettanta grazia. Il volto armonioso, gli occhi piccoli, allungati all’orientale, davano al suo aspetto un ché d’antico; le linee delle guance erano gentili e scendevano sinuose su di un collo magro ed elegante; le labbra accentuavano appena il colore naturale, segno che la mano doveva intervenirvi con grande precisione. I capelli neri, perfettamente lisci, le si appoggiavano sulle spalle con leggerezza, dove ondeggiavano seguendo il corpo snello nei movimenti. Indossava spesso un vestito di un lilla chiaro, senza maniche nei giorni caldi, di una delicatezza di tessuto che accompagnava le forme di chi l’indossava esaltandone la morbidezza. La carnagione era chiara anch’essa, di un pallido che rivelava la consuetudine ad una vita ritirata.
La ragione del suo comportamento, quella persistente abitudine di alimentare i gatti, unita ad un incanto angelicale e al fatto che viveva chiusa in casa come la monaca di Monza, non avrebbe potuto non suscitare la curiosità dei vicini.
Il fatto poi che abitasse con una governante india, una tzotzil degli altopiani centrali del Chiapas dalle lunghe trecce, magra come un tronchetto della felicità e silenziosa come una volpe, accentuava la singolarità dell’insieme. Insomma, quella giovane e splendida donna, di una bellezza intatta, misteriosamente sottratta alle brame degli uomini – non ce n’era traccia nella residenza dove viveva -, consegnata a quella singolare, assoluta, incontrastata dedizione ai gatti, non poteva di certo passare inosservata. Eppure, sembrava che nessuno, nei dintorni, vi facesse caso: né i vicini se ne curavano, né circolavano sul suo conto indiscrezioni di sorta, come sarebbe stato facile aspettarsi. Un santuario di riservatezza, un intatto scrigno di riserbo.
Il portone della casa si apriva ogni giorno alla stessa ora e la donna appariva sulla soglia con una ciotola di smalto bianco tra le mani. Scendeva l’unico scalino con eleganza, guardando innanzi con la regale rigidità di una regina Azteca. S’inoltrava nel prato sotto lo sguardo attento dei gatti, che ne spiavano i movimenti con fremiti d’impazienza, come se volessero accelerare il momento che sapevano vicino. La ragazza apparteneva al giardino, all’erba ben curata, alla cascata di fucsie che dal balcone precipitava sino a terra, al salice, l’unico che fosse dato di vedere nei dintorni, alle tre palme nane appoggiate al muricciolo, al rododendro rosso che separava il prato dal sentiero di ghiaia, all’edera dai fiorellini bianchi che si arrampicava alla parete, su su, fino alla grondaia sotto il tetto, ai gatti, ai gatti soprattutto, che le saltavano all’intorno come cavallette in un campo di stoppie.
La donna si chinava con leggiadria e distribuiva loro i tocchetti di carne. I gatti scattavano verso la pioggia di bocconi, si drizzavano sulle zampe, muovevano la coda compiacenti. Lei li accarezzava con lo sguardo. Passava da uno all’altro con giustizia d’attenzioni, li osservava rincorrersi, soffiare, sottrarsi reciprocamente il pezzettino di carne, divorarlo con avidità. Immergeva la mano nella ciotola e lanciava all’intorno lo spezzatino come se spargesse dei petali di rosa nel giorno della festa della Madonna di Guadalupe.
Pareva che fosse l’unica cosa cui si dedicasse da tempo immemorabile, la sua unica attività, si sarebbe detto ad osservarla, la sola che le fosse stata affidata nella vita. Chi glie l’aveva affidata? Perché? Era poi un affidamento? Quando era iniziata quella missione inconsueta per fedeltà e dedicazione? Vero è che assolveva quel compito con allegria seria, una serietà lieve, compresa del proprio dovere, desiderosa di assolverlo, come se da esso fosse dipeso non il destino dei gatti ma quello dell’umanità.
Un giorno – finalmente! – appresi la ragione del suo comportamento. Non del rapporto con i gatti – questo non so ancora quando sia iniziato, né mi è stata fornita ragione di una tale predilezione -, bensì della impenetrabile solitudine della loro bellissima nutrice. Fu quando notai la fede al dito. Una fede minuscola, sottile sottile, che disvelava la sua condizione di coniugata. Il piccolo dettaglio mi spinse a forzare il riserbo di una bottegaia del quartiere nota per una certa scontrosità popolana, dove mi recavo di tanto in tanto per le compere domestiche.
Appresi così che il consorte della ragazza, dopo che si fu saziato di tanta bellezza, cominciò a manifestare una certa insofferenza per il rapporto della bella sposa con i gatti. Per il fastidio che potevano provocargli, per il cattivo odore di quella combriccola miagolante che si riuniva quotidianamente nel giardino di casa sua, per gelosia verso le attenzioni che ricevevano, per il tempo che sottraevano alla moglie ed essa a lui?
Difficile stabilirlo dalle parole della negoziante.
Pare che l’uomo abbia tentato di dissuaderla dal prendersi cura dei gatti prima con le buone, poi con le cattive. Infine, che abbia cercato di allontanare da lei e dalla casa l’oggetto di così assidue attenzioni: i gatti appunto. Un giorno ne avvelenò alcuni, gli altri li fece fuggire lanciandogli contro un dobermann feroce chiesto in prestito ad un collega di lavoro che ne fece a brandelli vari prima che i superstiti potessero trovare rifugio negli anfratti.
Non avrebbe dovuto farlo.
Ma non ebbe tempo per ricredersi.
La giovane moglie ne denunciò la scomparsa un giorno di due anni fa. Un caso di abbandono coniugale, dedussero le autorità di polizia dopo una rapida indagine. Il marito non ne deve aver voluto più sapere di dividere il ménage matrimoniale con i gatti, conclusero gli investigatori archiviando la causa. Quegli stessi gatti che pochi giorni dopo la sparizione dell’uomo e la morte del doberman assassino tornarono a pasteggiare allegramente nel giardino. Anche quando il corpo del marito venne alfine rinvenuto nel pozzo della casa confinante, non ci fu nulla che potesse ricondurre la sua morte a lei. Ai gatti sì, dal momento che il cadavere era tutto graffiato e la cavità degli occhi orribilmente vuota.
Ma non c’è pena per un gatto.